Andiamo a conoscere il mare
- Redazione
- 14 lug
- Tempo di lettura: 2 min
Il racconto di un viaggio di due settimane in Senegal, con le parole dei ragazzi e delle ragazze che ci sono state
Ci sono viaggi che iniziano molto prima del decollo e finiscono molto dopo l’atterraggio. Quello in Senegal è stato uno di questi. Il 21 aprile scorso un gruppo di ragazzi e ragazze partiti da Milano, si è trovato catapultato a Cap Skirring, nel sud del Senegal, a due passi dal confine con la Guinea-Bissau: in un post precedente ci avevano raccontato l'ideazione e i preparativi di questa esperienza. Due settimane in un orfanotrofio, tra bambini, suore e tatà. Un tempo breve ma denso, capace di allungare lo sguardo e stravolgere le aspettative.
Ogni giorno iniziava con una sveglia verso le 8:30. Le mattine si dividevano tra due tipi di attività: quando i bambini erano a scuola, i ragazzi aiutavano le tatà - le donne che si occupavano dei piccoli - e le suore nella gestione quotidiana. "Stavamo appunto dalle tatà e dalle suore ad aiutare, magari a preparare da mangiare il pranzo per i bambini oppure anche i vestiti, a stendere i panni, a fare il bucato", dice Elhadji. Quando invece non c'era scuola, era il momento del gioco e della condivisione diretta con i bambini.
Una delle giornate più intense? Quella in cui hanno caricato sul furgone tutti i 35 bambini e bambine per portarli al mare. "Molti di loro non lo avevano mai visto, perché essendo chiusi sempre in comunità... nelle loro giornate alternano scuola e orfanotrofio. Sempre così. Quindi non escono mai", racconta Elhadji, nato in Senegal ma cresciuto in Italia, che nel gruppo ha avuto anche il ruolo di mediatore culturale, parlando il wolof e facendo da ponte tra i due mondi.
Il mare era a soli 20 minuti di macchina dall’orfanotrofio.
Non sono mancate le difficoltà: rompere il ghiaccio, superare le barriere linguistiche, capire come essere presenti senza invadere. "All’inizio avevo detto che volevamo aiutare. Ma un ragazzo dell’associazione senegalese mi ha fermata: 'Tu non sei nessuno per aiutare'. E aveva ragione. Alla fine sono loro che hanno aiutato noi". Asia lo racconta con lucidità, consapevole del percorso di crescita che il viaggio ha innescato. Le giornate passavano tra risate, giochi, chiacchiere improvvisate e gesti semplici. Poi, nel tardo pomeriggio, si tornava alla base.
Un altro bel momento è stata la partita di calcio: dopo vari tentativi, il gruppo è riuscito a organizzare un vero pomeriggio di gioco. "All’inizio era impossibile: buttavi il pallone a terra e trenta bambini ci saltavano sopra. Poi siamo riusciti a fare le squadre, e abbiamo giocato davvero".
Ora che sono tornati in Italia, svegliarsi per andare a scuola ha un sapore diverso. "Mi manca quella sensazione di alzarmi e sapere che sarei andata a vedere i bambini. Qui la vita corre, ma là si viveva tutto più pienamente. Qui è come se stessimo perdendo qualcosa".
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